sabato 28 febbraio 2009

L'importanza e la bellezza di un rifugio interiore


Bellissimo questo articolo che desidero condividere con te, vedi, a volte, poco si conoscono le dinamiche che regolano il nostro essere, altrimenti utili in un contesto rlazionale primario. Buona lettura.


Michele Giannantonio, Anna Laura Boldorini


Sito Internet: psicotraumatologia Comunicazione pubblicata negli Atti del XI Congresso Nazionale A.M.I.S.I., "Quarant'anni di ipnosi in Italia: presente e futuro", 1998



1. Introduzione È una pratica comune nella psicoterapia ipnotica impiegare la costruzione di rappresentazioni mentali di luoghi reali o fantastici per indurre la trance, approfondirla oppure per obiettivi terapeutici specifici. Tale approccio, però, può non essere immediatamente agibile o soddisfacente. Alcuni pazienti, infatti, mostrano di incontrare ostacoli fin dall'inizio del lavoro ipnotico, anche se, in apparenza, si è solamente in una fase preparatoria ed introduttiva. In realtà con questi pazienti siamo già in psicoterapia, poiché il superamento di queste difficoltà produce importanti risvolti trasformativi sulla loro personalità e sull'alleanza di lavoro.
In questa comunicazione ci proponiamo di evidenziare alcuni dei più comuni problemi che possiamo incontrare nella nostra pratica clinica all'inizio del lavoro ipnotico. Intendiamo poi mostrare come la tipologia degli ostacoli incontrati possa contenere decisive informazioni diagnostiche e di orientamento del successivo intervento terapeutico. Impiegheremo alcuni casi clinici per illustrare le modalità di manifestazione delle difficoltà in oggetto ed il loro trattamento da parte degli scriventi.


Parte di ciò di cui parleremo viene comunemente inteso come "rinforzo dell'Io", concetto tanto vasto che, di conseguenza, rischia di apparire vuoto di significato. All'interno di esso, infatti, vengono spesso racchiusi processi fra di loro molto differenti sia per la necessaria modalità di gestione che per i risultati che generano. In ogni caso, però, un intervento corretto sulle difficoltà emergenti dovrebbe condurre il paziente a fruire di un "rifugio interiore" sempre più solido che gli consenta di costruire all'interno del Sé un'area relativamente libera da conflitti, una base sicura intrapsichica, punto di partenza per successive esplorazioni esperienziali e terapeutiche.
2. Il rifugio interiore Il consolidamento di un rifugio interiore (d’ora in poi “RI”) è rappresentato dall’accesso ad un luogo vissuto come tale dal paziente. Comunemente vengono scelti luoghi classici quali una spiaggia, un prato, un bosco, etc., ma il paziente può avere bisogno di luoghi differenti, come ad esempio il solaio di una casa immaginaria collocata in “nessun posto”. In ogni caso, il parametro per valutarne l’adeguatezza è la constatazione del senso di sicurezza, di protezione e di libera espressione che concede, e per questo motivo l’atteggiamento richiesto al terapeuta è di operare con la massima flessibilità, per utilizzare qualunque richiesta, risorsa e bisogno siano autonomamente impiegate in modo ecologico dal paziente.


Quando una persona richiede il nostro intervento spesso ha l’impressione di essere globalmente in difficoltà, come se “tutto” andasse male e non fosse possibile rintracciare alcun punto di leva integro per operare dei cambiamenti. In queste condizioni iniziali il ritrovamento o la costruzione (la differenza è fondamentale e sarà precisata in seguito) di un RI si presenta come un utile strumento di intervento per molti motivi, in quanto può consentire:

1) L’accesso ad una condizione psicofisiologica “libera da conflitti”, secondo una terminologia propria della psicologia dell’Io (12), vissuta come ristoratrice e autocurativa; nell’attuare questa operazione, spesso veniamo anche a conoscenza del modo in cui vorrebbe sentirsi la persona e quindi, più correttamente, può indicare lo stato finale ottenuto con la risoluzione dei conflitti.

2) Di imparare o migliorare le proprie capacità di repressione consapevole dei conflitti e della sofferenza, spesso carenti in quei pazienti che si sentono letteralmente invasi dai problemi passati o presenti.

3) Il riaccesso a risorse interiori dimenticate, contaminate o di impossibile fruizione, appartenenti ad un passato più sereno; in questo modo si consente al paziente di impiegare strumenti indispensabili al proprio cambiamento, che sono spesso inattingibili attraverso procedure meramente verbali (7, 12).

4) Di operare una progressione d’età implicita, costituita non tanto da sterili espressioni di fantasie e desideri (5, 12) o da un generico “Rinforzo dell’Io”, ma di orientare attivamente l’espressione dei bisogni, dei desideri e delle risorse del paziente verso obiettivi cenestesicamente fondati.

5) Come da 3), di ottenere importanti informazioni diagnostiche e prognostiche sulle condizioni del paziente.

6) Di restituire un senso di coesione e di continuità del Sé, sovente invaso o
frammentato dal disagio psichico (8, 12).

7) Qualora fosse necessario, di iniziare a viversi come punto di riferimento per sé
stessi, costruendo o ricostruendo uno spazio interiore vissuto come base sicura
introiettata, spesso assente o deficitaria nelle patologie più gravi (2, 8, 11, 12, 14).

3. Ostacoli Scoprire di avere “dentro di sé” un luogo bello, sicuro, amichevole, che consenta di “stare bene”, di riposarsi, di esprimersi liberamente, all’occorrenza di ripensare con un adeguato coinvolgimento affettivo al proprio passato e futuro, è di per sé una scoperta che per molte persone è indelebilmente positiva e trasformativa. Il sentiero che conduce alla scoperta od alla costruzione di un tale luogo può essere ostacolato da molti elementi, che non devono però essere considerati in sé totalmente negativi, ma anzi occasioni di diagnosi e prognosi che necessitano di interventi differenziati intrinsecamente terapeutici. In generale, si può dire che lo specifico problema incontrato contribuisce alla formulazione della diagnosi, mentre spesso la rigidità con cui l’ostacolo è un indicatore prognostico.

3.1 Falsità o irrilevanza dell’esperienza Alcuni pazienti riferiscono che l’esperienza positiva vissuta è, in realtà, sostanzialmente falsa, priva di valore, troppo lontana dal mondo “reale”.


Un tale genere di obiezione, spesso espressa indirettamente, può essere posta da individui che stentano a riconoscere una qualche grado di bellezza e amabilità in sé stessi e nel proprio mondo interiore. L’accanimento con cui tale convinzione viene difesa è indicativo del grado di radicamento dell’immagine negativa del Sé e della flessibilità con cui tale immagine può essere modificata ed aggiornata da nuove esperienze integrative. Si può rispondere a tale obiezione spiegando che la sostanza di quanto da loro immaginato è emersa spontaneamente in quanto presente in nuce, è calibrata sulle loro reali esigenze, non può essere stato inoculata dal terapeuta, ma solo elicitata maieuticamente da parti prevalentemente inconsce della mente del paziente.


Queste spiegazioni, congiuntamente a riaccessi ripetuti al RI sono sufficienti ad ottenere una progressiva accettazione dell’esperienza, producendo modificazioni non solo dell’autostima (costrutto complesso e ricco di componenti cognitive consapevoli) quanto anche la percezione somatica della propria gradevolezza ed amabilità. E’ inoltre un primo spiraglio sulla presa di coscienza di risorse inaspettate che intervengono autonomamente nella risoluzione di problemi e nell’appagamento di bisogni profondi.


3.2 L’abbandono L’accesso ad un RI richiede assolutamente la cessione di parte del controllo al terapeuta ma soprattutto al mondo immaginativo ed emozionale interiore. Tale passaggio non è sempre agevole, e più dell’intensità della paura spesso ha un’attendibile valore prognostico la difficoltà con cui viene superato. Possiamo incontrare questo ostacolo ad esempio nelle persone con un Disturbo di Panico, con o senza Agorafobia (1), abituate a percepire con molta paura le risposte autonome del corpo e a non percepirlo certamente come un luogo sicuro. In questi pazienti è parte integrante della terapia l’apprendimento all’abbandono e la scoperta che spesso sono proprio l’autocontrollo eccessivo e la coartazione emotiva a produrre i problemi temuti (6, 10).


Diversamente, può capitare che le difficoltà di abbandono siano legate al rapporto, più in generale, a problematiche transferali presenti fin dall’inizio della cura connesse alla cessione di potere, fiducia e controllo. In questi casi, il lavoro ipnotico può certamente essere d’ausilio, ma una parte sostanziale dovrà essere effettuata, in tempi spesso lunghi, nel setting più tradizionale (13).


3.3 La sicurezza impossibile Può essere che un luogo venga raggiunto, ma che non sia percepito come “sicuro”. Oltre ad essere un’indicazione indiretta del grado di coinvolgimento del paziente nei propri problemi e della difficoltà a separarsi da essi seppure provvisoriamente per viversi come luogo sicuro, pone il terapeuta nella necessità di operare in modo direttamente terapeutico per rendere accogliente e sicuro il luogo prescelto dal paziente. Ma ci possono essere molti motivi che rendono impossibile sentirsi al riparo:


3.3.1.La sicurezza apparente. Il paziente risulta apparentemente al sicuro, ma in realtà non può esplorare il suo RI. Spesso si tratta solo di un problema iniziale che verrà spontaneamente superato con la familiarizzazione. Altre volte, invece, il paziente non è in grado di effettuare un movimento esploratorio. Si può quindi affiancare al paziente un “aiutante” che funga da base sicura. L’ideale terapeutico, per la sua ecologicità intrinseca, è rappresentato dall’elicitazione di una parte del paziente che svolga questo ruolo protettivo,
già presente o che lo sarà più avanti nella vita una volta risolti determinati problemi (12).


Non essendo sempre possibile, bisogna allora ripiegare su persone della vita attuale o passata, o, come ultima chance, sul terapeuta medesimo. La scelta della persona testimonia del suo grado di compromissione e delle risorse relazionali o intrapsichiche a sua disposizione. Ritroviamo situazioni simili, in generale, nelle persone che faticano a restare agganciate ad uno stato sicuro, quindi persone poco autonome come nei Disturbi D’Ansia o nei Disturbi dell’Umore, ma anche in quei Disturbi di Personalità che impediscono l’espressione autonoma e serenamente indipendente della persona (per esempio, Disturbo Dipendente, Evitante e Borderline di Personalità; 1).


Come fine ultimo terapeutico bisogna sempre considerare che, laddove sia possibile in quanto sempre auspicabile, si pone l’obiettivo di autoesplorazione confidando essenzialmente nelle proprie risorse intrapsichiche o relazionali e quindi, in tal senso, dovrebbero essere nel lungo termine orientati gli interventi successivi. Erica, ad esempio, ha già raggiunto qualche volta il suo RI, ma non pare svolgere realmente un effetto protettivo e rassicurante. Non lo sente come “il suo RI” (come spesso positivamente accade), si sente osservata, nella spiaggia c’è un sacco di gente ma, soprattutto, c’è sempre un pescatore su uno scoglio, immobile, presente anche negli esercizi di autoipnosi prescrittile.


Giunto il momento adeguato, le viene detto che bisogna sapere che cosa fa lì il pescatore e, per questo motivo, di scegliere una persona che le dia sicurezza e protezione per andare a parlare con lui (sceglie il terapeuta).Avvicinatasi al pescatore, “scopre” (ma in realtà se lo “sentiva”) che in realtà si tratta del padre, deceduto, con il quale la paziente ha avuto un rapporto incestuoso di più anni del quale ha iniziato a parlare solo con l’esordio della terapia, quindi 28 anni dopo il suo termine. Riconosciuto il padre nel pescatore, gli urla di andarsene, di lasciarla da sola poiché ormai è grande.


Non appena il padre se ne va, la paziente lo richiama, non potendo sopportare di averlo ferito e rattristato. Nonostante l’abuso protratto, infatti, questo padre è stato per la paziente un importante punto di riferimento, essendo la madre assolutamente assente ed inaffidabile. Essere adulta e libera è una conquista ancora da costruire.


3.3.2 La sicurezza minacciata. In alcuni casi la sicurezza del RI è minacciata da “qualcosa” più o meno precisabile. Indicazione generale della difficoltà a reprimere i problemi, è sempre bene cercare di obiettivare la fonte della paura e gestirla in modo da costruire lo spazio di sicurezza richiesto. Ad esempio Paola, alla seconda esperienza con il suo RI, riferisce di sentirsi osservata da qualcuno, come se fosse filmata. Al terzo accesso un serpente enorme si arrotola intorno a lei, un qualcosa che rappresentava «qualche cosa che avevo fatto di male». La volta successiva, non appena il serpente si ripresenta, intervengo per aiutarla, scavo una buca profonda, getto dentro qualche cosa da mangiare (secondo una modalità applicata sistematicamente da Leuner: 9), ed a questo punto il serpente, inoffensivo ed appagato, è pronto per dialogare con Paola: dice che non vuole farle del male, ma solo verificare che non commetta dei tentati suicidi per attirare l’attenzione del marito e di altri familiari. A quel punto il serpente scompare e Paola sente che diventa suo alleato. Questo esempio mostra anche come sia possibile attraverso l’impiego di un RI procedere all’integrazione di materiale non integrato, cioè represso, rimosso o dissociato.
3.3.3.La sicurezza vuota. A volte il luogo può essere vissuto come sicuro, ma nondimeno non appagante e condizione per la libera espressione di sé. Paola, per esempio, dopo l’integrazione del serpente, si ritrova seduta in riva al mare a piangere a causa di un profondo ed ingestibile senso di solitudine: la paziente, infatti, depressa in trattamento farmacologico, a causa anche della costruzione di un “falso sé” connesso in parte alla sua obesità, è assolutamente priva di qualunque relazione umana autentica, reale o introiettata. Allo stesso modo Sara, dopo una certa familiarizzazione con un prato deserto dove non è possibile invitare nessuno se non il terapeuta, sente l’urgenza di sentirsi più al riparo e meno sola. Viene scelto un bosco popolato solo di animali, tra i quali un falchetto che le si posa su una spalla per proteggerla. La sicurezza acquisita è comunque estremamente limitata, in quanto Sara può entrare in relazione solo con animali, anche perché l’unico essere umano che ha accesso al bosco, il terapeuta, ha solo la funzione di garante dell’incolumità della paziente.


Paola ha un Disturbo Borderline di Personalità, caratterizzato da un marcatissimo attaccamento insicuro-ambivalente (8, 11).
In altri casi, il RI non è veramente tale in quanto vuoto di emozioni e sensazioni appaganti o addirittura palpabili: sovente si tratta di pazienti profondamente depressi che, se già in cura farmacologica, lasciano prospettare una prognosi di miglioramento, spesso parziale, solo attraverso una lunga e difficoltosa riabilitazione al gusto della vita. Per Leonardo, 55 anni, con Distimia e Depressione Maggiore Ricorrente, probabilmente depresso già dopo i 10 aa, anche se leggermente migliorato con una cura farmacologica, qualunque esperienza e luogo immaginati con l’ipnosi sono poco più che indifferenti, pur essendo in possesso di sufficienti abilità ipnotiche.
3.3.4.L’impossibilità di esserci. Se solo chiediamo ai paziente chi c’era nei RI, non è affatto raro scoprire che in quel luogo non c’era realmente o integralmente il nostro paziente. A volte è presente il paziente com’era una volta, prima di sviluppare certi problemi, oppure il modo d’essere del paziente risulta essere troppo legato a meccanismi di
appagamento di desiderio senza un reale potere trasformativo e di orientamento delle risorse.


Altre volte il paziente c’è, ma con un corpo non suo, uno fantasticato oppure precedente ad un peggioramento dell’immagine corporea. Quest’ultimo caso si pone di frequente nelle Dismorfofobie e nei Disturbi Alimentari Psicogeni dove è facilmente riscontrabile un’alterazione dell’immagine corporea (3, 4). E’ importante rendersi conto che, lavorando su questi “pazienti, in realtà operiamo azioni che tendono a rimanere con esiti ridotti o nulli, in quanto non dirette all’integrità del paziente o, comunque, poiché non entrano in gioco aspetti troppo importanti della sua personalità implicati nella sua sofferenza. Per esempio, in un paziente con un Disturbo Alimentare Psicogeno o con una Dismorfofobia, avendo bisogno di lavorare con gli aspetti principali della persona, dobbiamo produrre un’accettazione progressiva del corpo, ma in realtà questo lavoro preparatorio è di importanza terapeutica imprescindibile.


Altre situazioni riflettono invece problematiche più vaste: Antonia, gravemente depressa da moltissimi anni e provvista di bassissime abilità interpersonali, nel primo periodo di familiarizzazione con il RI non riesce a vedersi. Le viene allora suggerito di essere lì, ma di essere invisibile a tutti; per mezzo di questo escamotage la paziente riesce ad esplorare il suo RI, una spiaggia, stando molto lontana dalle persone, fino a quando, con le debite precauzioni, diventa visibile e si fa conoscere da un personaggio dello spettacolo che la incuriosisce e la diverte.


Riassunto


Gli autori hanno illustrato la rilevanza terapeutica della costruzione e della scoperta di un rifugio interiore per il paziente all’inizio di una psicoterapia ipnotica. Si sono inoltre evidenziate le principali difficoltà incontrate in questo processo da alcune tipologie di pazienti, con particolare attenzione al loro valore diagnostico e prognostico. Ne deriva che tale pratica clinica, lungi dall’essere una semplice “familiarizzazione all’ipnosi” o un “rinforzo dell’Io” non altrimenti orientato, costituisce di per sé uno strumento terapeutico finalizzato e propedeutico agli interventi successivi, non senza trascurare l’aspetto estetico e creativo del cambiamento.