di: Francesco Albanese
Nella prima metà dello scorso secolo, il tentativo della medicina psicosomatica di spiegare la relazione tra attività psichica e manifestazioni patologiche di tipo organico si concretizzava nella cosiddetta teoria del conflitto, di freudiana memoria, secondo la quale il sintomo era la formazione di compromesso tra le primitive pulsioni sessuali e le attuali difese psicologiche dell’Io. Tale conflitto, provocando una costante stimolazione emotiva, produceva la cronica attivazione del sistema nervoso, provocando inevitabili danni tissutali.
Ma l’evidenza che la terapia psicoanalitica di pazienti psicosomatici non portava agli stessi buoni risultati di quella che si otteneva coi pazienti nevrotici, anch’essi “vittime” di un conflitto psichico, e l’impossibilità di dimostrare il supposto legame tra conflitto e manifestazioni somatiche, portarono gli psicosomatisti a rivolgere l’attenzione alla capacità di riconoscere ed esprimere le emozioni (Trombini e Baldoni, 1999).In questo scenario, nel 1948 Ruesch individuò nel paziente psicosomatico quella che chiamò personalità infantile, caratterizzata da dipendenza e passività, conformismo sociale ed ideali irraggiungibili, tendenza all’azione corporea e mancanza di corrispondenza tra espressione verbale/non verbale e vissuto emotivo.
Notò inoltre una certa difficoltà a separarsi dalla figura materna (Ibid.).Verso la fine degli anni ‘50 dello scorso secolo, Marty e M’Uzan proposero, accanto alle classiche descrizioni di personalità nevrotica e psicotica, quella di una personalità psicosomatica, caratterizzata da ipernormalità ed adattamento conformista all’ambiente, e da un particolare stile cognitivo chiamato pensiero operatorio, analogo a quello postulato da Piaget, che risulta naturale come fase di sviluppo cognitivo del bambino, ma che nell’adulto si traduce in un deficit che lo penalizza per un’adeguata elaborazione simbolica delle emozioni, e tale da canalizzare l’espressione emotiva a livello somatico. E come precedentemente fatto da Ruesch, anche in questo caso, particolare importanza venne attribuita alle relazioni oggettuali tra madre e bambino (Ibid.).
Le teorizzazioni di Marty e M’Uzan trovarono conferma nei primi anni ’70 del secolo scorso, quando Sifneos e Nemiah riscontrarono in svariati pazienti psicosomatici una caratteristica comune, e cioè la difficoltà a descrivere le proprie emozioni ed un’attività fantastica povera, tipica appunto del pensiero operatorio. Sifneos e Nemiah coniarono per questa condizione lo specifico termine di alessitimia (dal greco “mancanza di parole per le emozioni”), da non considerarsi una diagnosi clinica, ma un tratto stabile di personalità che interagisce con gli agenti stressanti come fattore aspecifico verso la somatizzazione e lo sviluppo di malattie. In un ideale continuum, che rappresenta la difficoltà nel riconoscere, comprendere e descrivere le esperienze emozionali, l’alessitimia potrebbe essere collocata all’estremo “meno grave” assieme all’inibizione emotiva, con all’opposto le più gravi condizioni di anaffettività e anedonia (Ibid.).
Attualmente gli indicatori del DCPR (Diagnostic Criteria for use in Psychosomatic Research) per la diagnosi di alessitimia comprendono condizioni come: incapacità di descrivere in maniera appropriata le emozioni; tendenza a focalizzare la conversazione sui dettagli più che sul vissuto emotivo; mancanza di un ricco mondo fantastico; contenuto del pensiero associato a eventi del mondo esteriore; inconsapevolezza delle reazioni somatiche che accompagnano gli stati emotivi; occasionali ed estremi comportamenti affettivi, spesso inappropriati.Inoltre, la specifica del DCPR, secondo la quale l’alessitimia eventualmente riscontrata in sede di diagnosi non debba essere presente solamente nel corso di un disturbo dell’umore, di fobia sociale o di un disturbo mentale organico, evidenzia la transnosograficità di tale condizione.
Infine, nel DCPR è presente la distinzione tra alessitimia di tipo pervasivo, quindi strutturale a livello di personalità dell’individuo, e di tipo situazionale, limitato all’inibizione della rabbia e/o di un comportamento assertivo. In quest’ultimo caso, viene comunque da chiedersi se si possa realmente parlare di alessitimia vera e propria o più semplicemente di un modello relazionale appreso nei primi anni di vita per gestire in maniera più efficace, e meno dolorosa, particolari delicate emozioni come la rabbia, così da garantirsi una fitness più elevata. L’espressione della rabbia, nel sistema motivazionale innato (SMI) attacco/fuga, rappresenta l’attacco, dunque il confronto, il conflitto. Ma cosa accade quando l’avversario nel conflitto è una figura significativa, amata? La rabbia potrebbe “distruggerla” e questo porterebbe colpa, perdita, abbandono. Ecco dunque che il SMI attacco/fuga entra in conflitto con un altro importante SMI, quello dell’attaccamento.
La Teoria dell’Attaccamento (TdA) di John Bowlby (1969/1980) postula che gli esseri umani abbiano una predisposizione innata a formare relazioni di attaccamento con le figure genitoriali primarie, che le relazioni di attaccamento abbiano la funzione di proteggere la persona attaccata, e che tali relazioni esistano in forma organizzata alla fine del primo anno di vita. I tre pattern di attaccamento individuati da Ainsworth e coll. (Ainsworth et al., 1978), insicuro evitante (A), sicuro (B) e insicuro ansioso resistente (C), e quello successivamente identificato da Main e Solomon (1986), disorientato/disorganizzato (D), rappresentano quattro diverse modalità relazionali che caratterizzano altrettante tipologie di relazione madre/bambino.
Ogni pattern affonda le proprie radici su specifici Modelli Operativi Interni (MOI) (Bowlby, 1973), rappresentazioni mentali che hanno la funzione di veicolare la percezione e l’interpretazione degli eventi da parte del bambino, e poi dell’adulto, e che comprendono un modello di sé, un modello dell’altro ed un modello di sé-con-l’altro (Liotti, 2001).Normalmente entro l’ottavo mese di vita, ogni bambino presenta un attaccamento ben strutturato e diretto verso una specifica Figura di Attaccamento (FdA) preferenziale. Lo stile di attaccamento che svilupperà dalla sua nascita in poi, dipende in grande misura dal modo in cui i genitori (o altri caregiver) lo trattano. Il bambino sicuro ha fiducia nella disponibilità e nel supporto della FdA che risulta essere sensibile ai segnali del bambino, o come direbbe Winnicott sufficientemente buona.
Il bambino evitante è caratterizzato dalla convinzione che alla richiesta d’aiuto verrà rifiutato dalla FdA, una figura che respinge costantemente il figlio ogni volta che le si avvicina per la ricerca di conforto o protezione. Il bambino ansioso resistente, invece, non ha la certezza che la FdA sia disponibile a rispondere ad una richiesta di aiuto, dato che la sua modalità di risposta è di tipo intermittente. Infine, il bambino disorientato/disorganizzato presenta un duplice modello interno della FdA, vista come accudente ed allo stesso tempo spaventata/spaventante. Questa duplice rappresentazione è promossa da un genitore minaccioso, abusante, o che due anni prima o dopo la nascita del figlio ha subito un grave lutto (Liotti, 1994). La differenza che intercorre nella formazione di MOI diversi a seguito di diverse risposte di vicinanza da parte del caregiver sottolinea l’importanza dei primi scambi comunicativi col bambino, uno scambio il cui contenuto è essenzialmente non verbale ed emotivo.
Secondo Trevarthen (1998), il transfert emotivo che si stabilisce tra madre e figlio risulta critico nello sviluppo del linguaggio e le caratteristiche qualitative del modo in cui le madri (ideali, aggiungo io) si rivolgono ai figli sono accuratamente sintonizzate per favorire un appropriato e dinamico sostegno emotivo ad ogni tappa dello sviluppo linguistico infantile. Un neonato, infatti, è già in grado di scambiare empaticamente emozioni con un’altra persona, a patto che questa desideri presentarsi emotivamente disponibile al piccolo, nei modi a lui comprensibili. È così che, attraverso il continuo scambio emotivo con la FdA, il bambino impara a parlare delle proprie emozioni ed a classificarle. L’interconnessione tra il dominio emotivo e quello più prettamente cognitivo descritta da Trevarthen trova un correlato fisiologico nel modello di alessitimia sviluppato da McLean, secondo il quale nei casi di difficoltà di riconoscimento delle emozioni sembra esserci una scarsa integrazione, una schizofisiologia, tra corteccia cerebrale e sistema limbico (Trombini e Baldoni, 1999).
Possiamo immaginare che la trasposizione a livello relazionale del concetto di schizofisiologia postulata da McLean, si traduca in una mancata integrazione tra rappresentazione cognitiva della FdA e vissuto emotivo ad essa correlato.Questo può accadere verosimilmente in almeno due circostanze:1. la FdA non è in grado di comunicare le emozioni;2. il bambino è costretto a limitare l’espressione delle emozioni o a reprimere emozioni scomode.Nel primo caso, una FdA che non sia in grado di esprimere le emozioni, proporrà al bambino un modello operativo di se stessa di tipo meramente cognitivo, limitandolo la possibilità di esistenza, o quantomeno l’importanza, di un dominio emotivo. Nel secondo caso è ipotizzabile che i pattern insicuri (A, C e D), ai semplici fini adattivi, debbano adottare particolari strategie mentali che vanno a viziare la naturale espressione delle emozioni. Ad esempio, un bambino evitante, che viene sistematicamente rifiutato dalla FdA, proverà inizialmente un vissuto di tristezza.
Per allontanare questo vissuto doloroso, le alternative sono due: disattivare il sistema dell’attaccamento (cosa impossibile), o reprimere la tristezza. Un bambino con pattern ansioso resistente, invece, con buone probabilità si autolimiterà nell’espressione della rabbia, che, nella propria ottica soggettiva, lo renderebbe non amabile agli occhi della FdA, con conseguente possibilità di abbandono. Montebarocci e coll. (2004) suggeriscono la possibilità che l’alessitimia possa costituire non solo un’abberrazione di personalità di tipo ereditario, ma possa risultare anche come conseguenza secondaria di un trauma infantile ed emergere a seguito di difetti nel legame di attaccamento.
Svariati studi hanno indagato la correlazione che intercorre tra alessitimia e stili di attaccamento in età adulta (vedi ad es. Montebarocci et al., 2004; Wearden et al., 2005) ed i risultati che ne emergono vanno tutti nella stessa direzione, evidenziando correlazioni più o meno forti tra diagnosi di alessitimia e stili di attaccamento di tipo insicuro (A, C e D), ad indicare che lo stile di attaccamento non è forse la causa prima di alessitimia, ma quantomeno un fattore di rischio aspecifico che può partecipare alla strutturazione di un modello operativo di sé di tipo fortemente cognitivo.
ALBANESE, F. (2006). Attaccamento e Alessitimia. Firenze: PsicoLAB. Visionato il 01/03/2009 su http://www.psicolab.net
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